Non c’è una e dico una sola persona che ad oggi non abbia sentito parlare di Bunga Bunga.
Nessuno che sia in grado di mostrare uno sguardo innocente di fronte a quell’espressione… che poi non è altro che una parolina semplice semplice ripetuta due volte.
Una parolina che una volta al massimo poteva evocare l’immagine lontana di una danza tribale.
O di un ballo di gruppo.
Di quelli da balera o da chiosco sulla spiaggia.
Una roba talmente disgustosa da far pensare a vecchie al rimorchio di maschi sfigati.
Una volta sarebbe potuto essere questo l’immaginario legato al BB.
Adesso, invece, il Bunga Bunga è molto di più.
Si è arricchito di significati.
Ha assunto quel tono peccaminoso che fa sentire certe giovani zoccole ancora più zoccole e ha maturato quel sapore goliardico che fa arrapare molti vecchi inamidati più del viagra.
Se n’è sentito parlare in tutti i modi.
Da tutte le parti.
In tutte le lingue.
Non c’era bisogno di tornare sull’argomento.
Ne abbiamo le palle talmente piene che viene quasi voglia di ballarlo un po’… ah no. Giusto. Non era un ballo.
Ma il Bunga Bunga non è solo questo.
Non può essere ridotto ad emblema di maschio italico amante delle tradizioni del Continente Nero.
Certo che no.
Il Bunga Bunga è prima di tutto un gran bel pezzo.
È la nostra rivisitazione dell’inno calcistico di Shakira – eh si, sempre lei.
È la canzone nazional-popolare che meglio riflette l’Italia.
Un paese che non è per vecchi e non è per giovani, ma che per qualcuno, a ragione, è diventato un paese per comici.
E come ci fa capire il New York Times pure chi ha vinto San Remo deve adattarsi alla situazione.
Perché la modernità è flessibile.
Sotto tutti i punti di vista.