Si narra che in tempi non troppo lontani la musica fosse diventata uno dei principali strumenti della politica, soprattutto durante le campagne elettorali.
In tanti hanno assistito a questa rivoluzione, anche se in pochi ne conservano memoria.
I candidati che facevano a gara per dimostrare il loro attaccamento alla musica.
Le lotte per accaparrarsi il gruppo figo.
Le spassionate dichiarazioni di amore ai cantanti più improbabili.
E ancora, i concerti organizzati, annullati e spostati.
Le turnazioni nelle principali piazze, con destra e sinistra a sfidarsi in una gara a chi riusciva a riempirle di più.
Una cosa dopo l’altra, si è arrivati ad un punto senza ritorno, dopo il quale niente è stato più come prima.
La musica era diventata il nuovo linguaggio.
L’unico strumento di espressione possibile.
E, senza che nessuno se ne accorgesse, è stato imposto lo statuto del concerto da stadio.
Uno statuto al cui interno era permesso quasi tutto.
Urla di incoraggiamento.
Fischi di assenso.
Applausi collettivi improvvisi.
Brani cantati a squarciagola.
Richieste immotivate di bis ad ogni angolo di strada.
Pericolosi accendini ondeggianti ad illuminare intimità altrui.
Cuoricini luminosi per i più tranquilli.
Pogo selvaggio per i ribelli.
Ancora oggi c’è chi pensa che dietro questa grande rivoluzione culturale ci sia lo zampino delle lobby di spartiti e applausometri.
Ma io no. Non ci credo.
Perché non mi sono mica scordato di Milano e di tutto quello che è successo.
C’erano i terroristi.
Gli zingari.
I drogati.
E c’erano i rosci.
I rosci chi?
Si, i rosci. Quelli più sfigati di tutti.
Quelli che per una vita hanno fatto finta di essere giovani e fighi, ma non ci sono mai riusciti.
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